La pirateria e il brigantaggio degli Histri (specialmente durante il III e II secolo a.C., quando governavano l’Alto Adriatico) e la necessità romana di proteggere le rotte marittime per le attività commerciali furono all’origine delle guerre tra Histri e romani, terminate con la disfatta degli Histri nel 177 a.C. Con l’inclusione della penisola istriana, attorno al 12 a.C., nella Regio X Venetia et Histria cominciò la romanizzazione del nuovo territorio conquistato, che nella zona di Salvore, come nelle altre parti dell’umaghese, si concretizzò con la spartizione di grandi proprietà agricole a individui benestanti che facevano parte della cerchia ristretta dell’imperatore Augusto (è accettata l’opinione che il territorio tra i fiumi Dragogna e Quieto apparteneva alla colonia di Tergeste mentre l’unico municipio all’interno di questa colonia fu Aegida (Capodistria).
Dislocate in prossimità della costa, queste proprietà diventarono portatrici dello stile di vita romano. Dato che il motivo della loro esistenza era l’attività economica che poggiava per la maggior parte sull’agricoltura, ma anche sulla pastorizia e l’artigianato, non sorprende la costruzione di piccole banchine entro le proprietà (ad es. presso la villa romana a Zambrattia, a Sipar, a Catoro, a San Giovanni), mentre la vicinanza di un porto più grande, come quello di Salvore, offriva la possibilità di apertura di un ampio mercato fino ai centri più lontani del Mediterraneo. Questo mercato passava attraverso Aquileia, capoluogo della X regione italica, il più grande centro commerciale dell’Adriatico settentrionale e punto di partenza dell’esercito romano verso la costa adriatica orientale (MATIJAŠIĆ 1986: 92). Nella tarda antichità porti importanti diventarono, per un breve periodo, anche Grado e Ravenna, mentre Venezia lo sarà durante il Medioevo (BRUSIĆ 2009: 245-256).
Non c’è dubbio che la baia di Salvore sia stata sfruttata, anche prima dell’arrivo dei Romani, dalla popolazione istriana per lo scambio di prodotti. Il traffico marittimo attraverso l’Adriatico si svolgeva lungo la costa orientale, sfruttando le correnti marine da sud verso nord, e la posizione degli abitati preistorici su altura del territorio di Salvore rendeva possibile il totale controllo del traffico (DEGRASSI 1957:45; BURŠIĆ MATIJAŠIĆ 2009: 42). Con le imbarcazioni si trasportavano da sempre sia passeggeri che merci.
Due naufragi risalenti al periodo della Repubblica romana (II e I secolo a.C.) ci confermano la continuità nell’utilizzo della baia come scalo, ma anche per lo svolgimento di altre attività affini.
Il primo naufragio fu indagato nel 1963 dall’archeologo Štefan Mlakar, del Museo Archeologico dell’Istria. L’imbarcazione mercantile, con circa duecento anfore da vino, affondò a causa delle raffiche di bora lungo la costa del promontorio salvorino. In base al carico della nave, l’affondamento della stessa si può collocare nel periodo che va dal 140 all’80 a.C.; le dimensioni della nave erano comprese tra i 9 e i 12 metri di lunghezza, con una capacità di carico di 10 tonnellate. Forse si trattava di un veliero di modeste dimensioni (probabilmente di tipo isseico), destinato alla navigazione sotto costa e al commercio che, a causa della bora, della tramontana o di un forte maestrale, non giunse mai a destinazione (Aquileia?), arenandosi sulla costa settentrionale a 1500 m dalla baia di Salvore (MLAKAR 1963; UHAČ 2003: 25-26).
Il secondo naufragio importante è quello indagato nel 2006 nella cosiddetta Secca di Buie. In seguito alle ricerche condotte da Mario Jurišić dell’Istituto Croato di Restauro, su segnalazione dei sommozzatori locali, è stato confermato che si trattava del naufragio di un’imbarcazione del II secolo a.C., con un carico di anfore greco-italiche. Essendo uno dei reperti archeologici conservati meglio in Istria, la nave è presentata in situ insieme al suo carico, protetta da una gabbia (ZMAIĆ 2009).

All’epoca dell’Alto Impero Romano (I secolo d.C.), la baia di Salvore venne ulteriormente protetta con la costruzione di due frangiflutti, quello settentrionale (lungo 55 m., largo 12 m.), che protegge le imbarcazioni dal maestrale e dalla tramontana e quello meridionale (lungo 110 m. e largo 12 m.), che le proteggeva dall’ostro e dal libeccio. L’entrata nella baia fu ulteriormente agevolata con la costruzione del faro sulla sommità del frangiflutti. Insieme ai frangiflutti esistevano anche una zona operativa e fabbricati adibiti allo stoccaggio, carico e scarico dei beni.
Fin dalla notte dei tempi la costa orientale del mare Adriatico fu la rotta commerciale e militare marittima più breve tra il Mediterraneo orientale e l’Europa centrale ed è per questo che lungo il suo versante si snodavano le rotte di comunicazione più importanti. La destinazione finale di queste rotte, durante l’Impero Romano, era la colonia di Aquileia, fondata nel 181 a.C., e attraverso la quale si svolgeva l’intero commercio marittimo dell’epoca. Con la costruzione del porto di Salvore, l’antica Silvo diventò uno scalo obbligato sulla rotta che da Aquileia a Trieste (Tergeste) proseguiva verso Parenzo (Parentium), Pola (Pola) e così avanti verso sud.

Nell’antichità la navigazione si svolgeva di solito durante il giorno e non si viaggiava durante l’intero anno, ma solo nei mesi estivi (da maggio a settembre); gli spostamenti nei mesi autunnali ed invernali avvenivano soltanto per motivi urgenti. Si navigava col vento in poppa nei limiti dei punti visibili, entro una serie di scali, baie naturali, ancoraggi e porti come quello salvorino, che assicuravano un pernottamento sicuro anche quando la sosta, a causa del maltempo, durava svariati giorni (BRUSIĆ 2009:246). Tenendo conto dell’importanza del porto salvorino durante l’Evo antico, non sorprende che venga menzionato nella Tabula Peutingeriana – antico itinerario disegnato nel periodo che va dal I al IV secolo d.C. – dove Salvore, posta a nord di Pola, per la prima volta viene denominata Silvo. Dopo il turbolento periodo tardo-antico e la dominazione bizantina nel VI sec, l’Anonimo Ravennate la ricorda con i nomi Silbio e Silbonis e la colloca tra Pirano (Piranon) e Sipar (Sapparis, Siparis), il che ci permette di collocare la località nella zona di Salvore vecchia (KRIŽMAN 1979: 320, 333). La menzione successiva è del cronista veneziano Giovanni Diacono (fine X – inizio XI sec.), il quale cita la località nella descrizione dello scontro tra Veneziani e Narentani, avvenuto verso la fine del IX secolo, mentre testimonianze successive della località si trovano nelle carte e nei portolani della prima Età moderna (BRUSIĆ 2009: 249).
I resti delle costruzioni romane sommersi nei pressi della baia di Salvore attraggono ormai da molto tempo gli storici e gli archeologi. Il primo a menzionarli fu Pietro Coppo nell’opera Del Sito de L’Istria, pubblicata nel 1540. Nonostante le successive menzioni del vescovo di Cittanova Tomassini (metà del XVII secolo) (TOMASSINI 1837: 359) e di Pietro Kandler (metà del XIX sec.) (KANDLER 1846: 117) i primi dettagli del porto di Salvore vennero forniti da Attilio Degrassi all’inizio del XX sec. Il Degrassi, oltre a fornire le dimensioni dei due frangionde romani, descrisse l’architettura presente nelle vicinanze del porto e il ritrovamento della statua bronzea di Iside Fortuna, nonché di due monumenti epigrafici in pietra nella zona di Salvore (DEGRASSI 1957:45-47).

Entrambi i monumenti epigrafici in pietra nominati dal Degrassi sono monumenti funerari romani (stele); uno di questi, già alla fine del XVIII secolo, venne trasferito, insieme ad un’altra iscrizione in onore della battaglia di Salvore, nella villa di Angelo Querini, non lontano da Venezia e poi in Inghilterra (KANDLER 1846: 117). Questa stele romana, che una volta era murata nel portico della chiesa di San Giovanni, ricorda la famiglia dei Trosii, il padre Publio e la figlia Nevia, che nel I secolo vissero nella zona dell’attuale Salvore vecchia, dove sono stati poi sepolti (TOMASSINI 1837: 359-361; DEGRASSI 1936: 21-22).
L’altro monumento funerario della famiglia dei Ragonii fu descritto dal Kandler, che lo ricorda murato nella parete perimetrale del cortile della stanzia Franceschia la quale, essendo stata di proprietà della famiglia Fonda di Pirano, venne denominata Fondano (KANDLER 1846: 118).
C’è una grande probabilità che la famiglia dei Ragonii fosse stata una delle ricche famiglie romane che, durante il passaggio dal I secolo a.C. al I secolo d.C., ricevettero grandi proprietà terriere nella zona di Salvore. Anche se non è facile individuarne l’esatta ubicazione, è probabile che si trovasse nelle vicinanze dell’attuale Franceschia e che una delle attività economiche svolte in questa stanzia fosse la produzione di laterizi (tegulae et embrices), come risulterebbe dal rinvenimento di un frammento di tegola recante il sigillo Q.RIINI, trovato nella vicina Catoro (ZACCARIA 1993: 163).

È noto che tutti questi reperti risalgono al I secolo d.C, il che significa che, con la costruzione del porto romano, venne a formarsi pure una comunità più ampia, ovvero un abitato, che si sviluppa assieme al porto. La posizione dell’abitato accanto al porto, giudicando dai molteplici reperti rinvenuti in superficie come tegole (tegulae, embrices), ceramica fine (terra sigillata), tessere musive e altro materiale archeologico che testimonia la ricchezza e la molteplicità dei fabbricati, molto probabilmente si potrebbe localizzare nello spazio a sud della costruzione portuale (cisterna), nella penisola di Borosia.Il ritrovamento, nel 1929, di una statua in bronzo di Iside Fortuna (I/II sec) durante i lavori di costruzione della strada d’accesso verso il molo appena costruito per lo scalo dei piroscafi, dimostra prima di tutto la presenza in queste zone di una ricca casata di orientali.
Quanto Silvo fosse importante come rotta commerciale e in che misura attraesse la popolazione da tutto l’Impero romano ci viene confermato dalla ricca famiglia dei Ragonii, della tribù dei Romili, che non lontano dal porto avevano la loro villa, dalla famiglia dei Trosii, la quale si suppone facesse parte della popolazione romanizzata locale degli Histri (DEGRASSI 1936:22), nonché dalla presenza di una famiglia orientale che adorava il culto di Iside Fortuna.

La necessità di prolungare il molo esistente al fine di ottenere lo spazio necessario per l’ormeggio di navi di grandi dimensioni ha fatto sì che fossero avviati lavori edilizi, svolti in parallelo alle attività di ricerca e agli scavi di recupero (1995 e 1996). Prima di questi, le uniche ricerche archeologiche subacquee entro la baia di Salvore erano state condotte negli anni ’60 del secolo scorso, quando l’archeologo Štefan Mlakar, del Museo Archeologico dell’Istria, nelle vicinanze dell’antico bacino, attorno alla rampa di cemento per il carico della marna, aveva scoperto un relitto con frammenti di contenitori fittili antichi, distrutto da una scavatrice (MLAKAR 1963).
Con gli scavi di recupero del porto negli anni ’90 (il conduttore delle ricerche del 1995 erano il Dott. Zdenko Brusić i e il Dott. Smiljan Glušćević del Museo Archeologico di Zara, mentre il conduttore delle ricerche del 1996 erano Marjan Orlić e Mario Jurišić del Reparto per la protezione dei beni archeologici Amministrazione statale a Zagabria) è stato confermato che l’esistente molo, costruito nel 1929 per l’ormeggio dei piroscafi e parzialmente distrutto dalle mine nella II guerra mondiale, poggia per la maggior parte sul frangiflutti romano. È confermata pure l’esistenza, a 1 metro di profondità nella parte tra il molo attuale e la rampa di cemento per il carico della marna, dell’antica linea di costa costituita da blocchi di pietra posati linearmente. Il ritrovamento in situ della costa romana ha portato alla sua ricomposizione, realizzata in modo che tutti gli 80 blocchi che la compongono sono stati sollevati a livello dell’attuale superficie della riva salvorina. Contemporaneamente allo studio del frangiflutti romano settentrionale e della riva, è stata eseguita la ricognizione del terreno accanto alla costa meridionale, dove si trovava il grande frangiflutti romano meridionale; da esso, verso il fondo della baia, è stato trovato uno scalo minore (23 x 17 m.), posizionato accanto alla massiccia costruzione antica (cisterna) che era presumibilmente parte del complesso portuale di questa parte della baia. Il frangiflutti romano meridionale, che serviva per la protezione dai venti occidentali, è stato costruito realizzando un terrapieno di pietra amorfa, sopra il quale furono posati grandi blocchi lavorati a completamento dell’opera, i quali costituivano una superficie calpestabile. Sulla sommità del frangiflutti è provata l’esistenza di una struttura rotonda in pietra che rappresentava una sorta di piattaforma rialzata (cosiddetto faro) sulla quale si accendeva il fuoco. La luce del faro rendeva possibile un’entrata più sicura a quelle navi che, alla fine della navigazione diurna, si fossero trovate nell’oscurità. Una simile struttura di faro si trovava anche sul frangiflutti settentrionale ed è visibile dallo schizzo del porto disegnato a mano dal Degrassi prima dei lavori del 1929. La riva operativa meridionale arrivava fino al terrapieno sul quale si allineavano i grandi blocchi in pietra (BRUSIĆ 2009: 249-251).

La varietà del materiale archeologico trovato durante le ricerche precedentemente citate ha dimostrato il grande sfruttamento del porto, dalla sua costruzione nel I sec. fino al XII secolo, mentre la grande quantità dei ritrovamenti (reperti in ceramica, lucerne ad olio, anfore) del periodo compreso tra il IV e il VII secolo, confermano che la sua frequentazione, nel turbolento periodo tardo antico, non era diminuita. Ritrovamenti sporadici del periodo compreso tra il XII e il XVII secolo parlano della stagnazione, cioè della cessazione dell’uso del porto come tale (BRUSIĆ 2009: 245-256). Tra i ritrovamenti archeologici, l’unico reperto di pietra è un blocco massiccio di altare votivo romano databile al II sec. (dopo le ricerche, l’altare era riposto di fronte alla casa di Edi Soldatić nella vecchia Salvore dopodiché fu traslocato nel deposito del Museo civico di Umago (2012)).
Tra i reperti ritrovati meritano particolare attenzione due lucerne a olio paleocristiane risalenti ai secoli IV e V, trovate all’entrata della baia di Salvore (BRUSIĆ 1995: 13). La prima è una lucerna di vetro, di forma troncoconica, e presenta tracce di impronte della staffa di bronzo (MIGOTTI 2004: 59, 119).

La seconda lucerna è di ceramica, nella sua parte superiore vi è raffigurato un cane, mentre nella parte inferiore è riportato il marchio di produzione dell’officina. Questa lucerna è stata importata a Salvore dalle officine nordafricane, i cui prodotti si sono diffusi in tutto il Mediterraneo, specialmente dopo il IV secolo e durante tutto il V e VI secolo. Entrambe le lucerne avevano la funzione di illuminare; la prima illuminava uno spazio sacrale e l’altra uno di natura profana. Mentre entrambe sono conferma della presenza cristiana nella zona dell’antica Salvore, quella in vetro indica propriamente l’esistenza di uno spazio sacro. Dove si trovasse questa chiesa paleocristiana per adesso rimane ignoto, ma è possibile che fosse collocata nel sito dell’odierna chiesa di San Giovanni.

Reperti subacquei sporadici, trovati nella zona del promontorio salvorino fino alla baia di Zambrattia, completano la conoscenza sul modo di vivere e specialmente di navigare nell’antichità. Tre collezioni private minori, la prima di Danilo Latin, la seconda di Diego Makovac e la terza di Moreno Degrassi, indicano i possibili punti di naufragio delle antiche imbarcazioni che, non potendo evitare le improvvise folate di vento, affondarono insieme al carico. Oggi queste testimonianze sono rappresentate dalle barre di piombo delle ancore, dalla caraffa in ceramica per versare l’olio e dall’ansa di secchio (situla) in ceramica sulla quale è applicata la maschera di Giove (Zeus) Amone (HAYES 2008: 110, 276, pl. 83).
Le due barre di piombo per ancora in legno testimoniano meglio di ogni altro reperto la pratica della navigazione antica nelle acque di Salvore. Tenendo conto che entrambe sono state trovate nella stessa località, è possibile che facessero parte dell’equipaggiamento della stessa nave. Se la nave fosse affondata sotto i colpi del vento o se le ancore fossero state buttate in mare, per il momento lo ignoriamo. L’uso del piombo nella fabbricazione delle barre rendeva possibile la fabbricazione di barre più lunghe, più grandi e più pesanti, che potevano essere usate per l’ancoraggio delle grandi imbarcazioni, ma anche per facilitare la manovrabilità e la distribuzione del peso a bordo delle imbarcazioni di dimensioni minori aventi però un peso analogo a quello delle imbarcazioni più grandi. Barre di piombo per ancora si trovano in tutto il Mediterraneo e queste di Salvore, tenendo conto che sono estrapolate dal contesto della nave e del suo carico, in base ai naufragi conosciuti a Salvore, possono essere datate dal II secolo a.C. al I d.C.

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